Il bene e il male: liberi di odiare. Siamo davvero liberi?

La violenza è sempre esistita, eternamente il male vuole prevalere sul bene e quest’ultimo, dalla notte dei tempi, lotta per impedirlo. Le religioni, la teologia e la filosofia hanno per prime cercato di scandagliare l’abisso del mistero del male, il quale da sempre stimola tormento e angoscia nella coscienza dell’uomo. «Dio è morto», ha detto, lapidariamente, Nietzsche. Bene e male sono le due entità che muovono il mondo e l’essere umano, le sue azioni, dal singolo alla massa.

Perennemente in antitesi, già in antichità per la filosofia il male era inteso come non-essere. Il male è quindi un non-esistere? La Storia ci ha posto spesso davanti al male estremo e alla domanda Perché esiste il male? Non andranno più via dalle nostre menti le immagini degli stermini di massa, dei sopravvissuti ai campi di concentramento, dei corpi esanimi dei migranti che galleggiano sull’acqua trasportati dalla marea da un estremo all’altro del Mediterraneo, degli abusi sugli animali vittime della malvagità dell’uomo.

Il male c’è, è lo sappiamo. Eppure, nonostante le infinite prove che il male ci ha dato della sua esistenza e del potere dell’uomo di assecondarlo o meno, continuiamo ciechi a navigare nei suoi abissi. Per Sant’Agostino il male appartiene alla sfera umana. Tuttavia, l’uomo ha facoltà di discernimento e per imparare a farlo è necessario porsi in ascolto della nostra anima e intraprendere un dialogo con sé stessi molto impegnativo. A un certo punto capiremo come comportarci davanti al bivio, se lo vogliamo, se lo sappiamo pensare. Molti, infatti, hanno perso questa facoltà o forse, molto probabilmente, non l’hanno mai coltivata: «Supera te stesso e supererai il mondo» scriveva il Santo d’Ippona.

È chiaro che oggi l’uomo ha perso la capacità di superare sé stesso e di provare quel meraviglioso e benefico sentimento che è la compassione. Per questo l’uomo contemporaneo non conosce davvero il mondo, pur viaggiando e andando sulla luna. Ma cos’è davvero la compassione? La parola, di derivazione latina, ci riconduce immediatamente alla capacità di soffrire insieme: cum (con) patior (soffro). Eppure siamo stati in grado di far pendere l’ago della bilancia sull’uso di questo termine in senso di pietà, non la pietas dell’affettuoso dolore e commossa partecipazione ma quella della commiserazione e del disprezzo.

E quindi? Non siamo più in grado di soffrire con l’altro, con il nostro prossimo, con il vicino, con chi è altro da noi. L’altro, questo sconosciuto. Viviamo in un’epoca in cui ogni cosa che è altro da noi è percepita come pericolo alla nostra integrità morale e fisica. L’altro è il nemico che si insinua nella nostra vita, nella nostra interiorità, nella nostra società, nella nostra personale piramide di idee, sempre pronto a rubarci qualcosa. Ma cosa?

L’ideologia è la peggior nemica del dialogo. Le ideologie spezzano, rompono, frantumano la possibilità di dialogo attraverso la violenza. Io sono cristiano, tu sei musulmano, io sono eterosessuale, tu sei omosessuale, io sono bianco, tu sei “negro”, io sono borghese, tu sei un poveraccio, io sono un commerciante in rovina per colpa delle salate tasse che devo pagare allo Stato, tu sei l’impiegato statale, l’insegnante che beneficia di tre mesi di vacanze sulle spalle dei cittadini. Sono solo esempi.

Una dicotomia dialettica tutta basata sulla profonda distanza dell’io dal tu. L’io che fa il j’accuse al tu. I ponti non esistono più, abbiamo costruito solo muri. Tu sei “altro” da me, da ciò che io sono convinto essere giusto. Per Socrate il male era l’ignoranza, il bene era la sapienza, la conoscenza. L’ignoranza è il motore di questa deriva sociale, psicologica, morale, spirituale e culturale. Ignoranza intesa soprattutto nel suo primario significato di non conoscere e, poi, come qualcosa che si dovrebbe sapere e non si sa. Pertanto l’ignorante è colui che ignora le altre realtà esistenti, è colui che non conosce altro da sé stesso. Nella visione socratica del male, se quest’ultimo è l’ignoranza, l’ignorante è messaggero del male. Da questo piccolo spazio che è l’ignoranza, in cui l’io si contorce su sé stesso senza volontà di apertura all’altro, il giudizio si sedimenta creando l’odio.  

Un grande osservatore del nostro folle  tempo contemporaneo, il poeta e saggista David Maria Turoldo, prete servo di Maria, ha dedicato tutta la sua vita cercando di incanalare il suo pensiero sul mondo nella sua scrittura fatta di riflessione profonda su quell’eterna lotta tra il bene e il male all’interno della quale si compie la Storia, da lui definita «cronaca nera del mondo». Siamo nell’epoca della “cronaca nera del mondo” in cui molte persone si sentono in dovere di esprimere un giudizio su ogni fatto e di allontanare da sé l’altro, sempre percepito come qualcosa di pericoloso che toglie qualcosa alla mia esistenza. Dunque un dialogo fatto sulla logica della sottrazione senza porsi il problema di capire, o almeno sforzarsi di farlo, che l’altro è sempre addizione, anche quando non condividiamo le sue scelte. Siamo liberi di non condividere, troppo liberi, ormai, di odiare tutto e tutti. Siamo davvero liberi?

Pace non perdere a causa degli empi

non invidiare i fautori del male […]

Lascia lo sdegno, desisti dall’ira,

non corrucciarti, faresti del male

Salmo 37

L’onestà e l’indipendenza della poesia oggi in Italia – Di Valentina Calista.

L’onestà e l’indipendenza della poesia oggi in Italia.

Di Valentina Calista.

La poesia, quando essa è ben radicata nella sua vera natura poetica, è sempre attuale. Ma non voglio qui parlare dell’attualità del testo poetico, piuttosto voglio riflettere nel tentativo di cogliere i segni della sua funzione ed evoluzione attuale nel sociale, nella quotidianità, nell’ identità di un paese chiamato Italia. La funzione della poesia nel mondo contemporaneo spesso viene sottovalutato. Dato storico è che il poeta non ha mai vissuto per danaro. Bene, non sarebbe un poeta. Ma in Italia talvolta è possibile anche questo perché il poeta (tutto italiano e contemporaneo) tranne alcuni rari casi, gode di un’ aurea di prestigio totalmente legata al marcio universo accademico, quello delle università popolate dagli innumerevoli “baroni”. Forse è ora di far uscire la poesia dalle università italiane, forse sarebbe anche ora di togliere questa veste istituzionale alla poesia come status dell’uomo di cultura. La poesia non è semplice frutto della cultura coatta. Essa è la massima esponente delle arti, e come sublime pratica artistica, poi di cultura, dovrebbe godere di un certo rispetto prima di tutto umano. La poesia è  un’azione sociale, artistica, etica. Mi capita spesso di leggere testi poetici di autori italiani “affermati” che con tutta l’aria cementata in uno spicciolo intellettualismo, vanno girando anche in programmi televisivi, spesso canali privati, proclamando la lo arte poetica come quella novità, come quella raffinata e colta sostanza letteraria che sicuramente vedremo anche in taluni manuali scolastici.  Anni fa intervistai per la mia tesi di laurea la poetessa Alda Merini. Sottolineando il mio immenso amore per questa donna, poi autrice (ricordate bene questo binomio “donna-autrice”/ “uomo/autore”) vorrei riportare qui la sua risposta alla mia semplice domanda «Cosa pensa della poesia di oggi e dei giovani scrittori?». Lei mi rispose semplicemente :  «Scrivono tutti e non dicono quasi niente… ma io non me ne curo più».

Ecco la questione. Caro lettore, la mia vuole essere una pura riflessione su ciò che è fondamentalmente una visione olistica della letteratura e dunque  della vita . La letteratura può, anzi deve, rientrare in questa visione. Il problema è la coscienza e la consapevolezza dell’autore contemporaneo. Tralasciando i virtuosismi della critica letteraria che spesso riduce a sterile “materiale” il testo poetico proclamando la sua indipendenza dall’autore (a mio avviso non c’è massacro letterario più grande), io vi chiedo in modo diretto e semplice : «come può una poesia essere tale, se l’animo dell’autore che la compone non è onesto e coerente con se stesso? È qui che entra in gioco la famosa onestà della poesia di cui tanto Saba parlava? La risposta è certamente sì. Possiamo parlare quindi dell’ “onestà poetica” come quella fortissima corrispondenza (quando è vera) tra la poesia e il poeta, il binomio prima citato “uomo/donna- poeta”. È la perfetta e rigorosa correlazione tra la poesia (onesta) e la vita (o visione della vita) del poeta. Saba metteva a confronto due grandi autori dell’epoca: Manzoni, con Gli Inni Sacri e l’Adelchi, e D’annunzio,  con le Laudi. Il primo portava con sé il verso umile di chi non vuole superare se stesso e la propria anima, restando in quella così cristiana umiltà che rende la semplicità del verso espressione altissima di bellezza, il secondo era trainato dall’eccentrico virtuosismo del superomismo, rendendo i versi preziosamente sonori ma onestamente poco umani. Eppure è sempre presente l’abisso tra valore etico e valore estetico tanto da far apprezzare “esteticamente” al vecchio Saba, D’Annunzio piuttosto che il Manzoni, e di questa contraddizione Saba ne era consapevole. Nel mondo contemporaneo potremmo utilizzare questo semplice criterio per valutare le poesie che amiamo leggere ma soprattutto quelle che vogliamo scrivere. Non si può scrivere poesia senza portare nell’attimo pensante, prima della scrittura, l’onestà poetica. Spesso mi capita di leggere autori le quali parole purtroppo (o per fortuna) scivolano sulla mia attenzione e lentamente, allontanandosi dal centro del sentire, spariscono senza lasciare traccia. Questa non è corrispondenza tra poesia e poeta perché laddove essa è presente, inevitabilmente l’emozione (se pur sommessa) si aggancia al gusto e all’animo del lettore. Ma come la contraddizione tra etica ed estetica insegna, spesso la critica letteraria si abbaglia dinnanzi all’altezza sonora dei versi carichi d’intenti intellettualistici soltanto perché portanti un nome già monopolizzato dal sistema accademico o editoriale italiano, tralasciando e sottovalutando la semplicità della bellezza che spesso i versi di molti altri autori hanno lasciato nella storia letteraria. Per non parlare delle nuove generazioni di giovani scrittori che devono fare i conti (in Italia) con il muro di cemento armato di editori (la maggior parte dei quali a pagamento), università (docenti accademici, baroni, ecc.ecc.), corsi e scuole di scrittura creativa e workshop per “diventare” scrittore, poeta, (come se la scrittura fosse una materia da modellare a piacimento con certezza di riuscita), programmi radiofonici pilotati dal sistema del monopolio editoriale e televisivo (Sei un giovane scrittore con tutte le carte in regola? Non ce ne frega nulla se non hai qualcuno che ti presenta come “nuova e geniale scoperta” dell’editoria).  Già, perché in Italia scrivere è diventato uno status symbol, fa tendenza, appare “intellettuale” aver scritto un libro e si vede sui volti dei molteplici autori che si celano dietro i tanto spudorati occhiali dalla montatura nera e grande, tanto in voga e di dubbio gusto.

Si pubblica tanto e “di tutto un po’”: la qualità è spesso accantonata per dare spazio a nuove voci che romanzano ogni aspetto della vita, persino quello culinario. Ormai in Italia si ama romanzare e la poesia, specialmente quella onesta, sta morendo nella morsa del grande monopolio della cultura: fare poesia in Italia purtroppo (spesso) non vuol dire essere indipendenti: circoli culturali, case editrici come sette, calendari per Natale con poesie proprie (a pagamento) , cene di poeti e poetastri, quote associative da pagare affinché una tua poesia possa entrare nella nuova antologia dell’anno, pedinare gli “autori affermati” a tutte le manifestazioni culturali, festival, presentazioni in libreria, per lasciare loro qualche cosa da poter “visionare”, scrivere decine e decine di e-mail a persone, redattori, direttori di riviste di saggistica letteraria (forse un po’ in questo settore ancora ci si salva perché nel saggio si parla di altri), direttori di case editrici, riviste on-line che tutti i giorni  prolificano per dare spazio a “nuovi talenti”. Le poltrone della cultura italiana sono ancora piene di persone che con la cultura hanno a che fare ben poco, soprattutto se parliamo di cultura di qualità. Ho parlato di poesia perché è quello che amo  ed è la strada che ho voluto tracciare per la mia vita, la poesia onesta però. L’indipendenza e l’onestà della scrittura è per me qualcosa per cui vale la pena ancora combattere, specialmente in questo paese.

il successo della Persona in Occidente – di Valentina Calista

Nella concezione della società italiana e pressoché (ma non sempre) nella società occidentale, il successo della Persona è direttamente proporzionale alla quantità di denaro e potere che essa riesce ad ottenere mediante le sue prestazioni: letteratura, musica, teatro, cinema, cultura, scienza, sapere, economia, imprenditoria, sanità. Il controllo delle idee attuato da parte dell”‘intellighenzia” italiana ha origini secolari e, contrariamente a quanto la norma usi pensare, l’italiano medio è stato per secoli adattabile ed adattato a questo sistema di “boicottaggio” culturale. Ad esempio durante il periodo dell’Umanesimo e del Rinascimento innumerevoli artisti fuggirono dall’Italia in quanto più apprezzati nella loro essenza artistica, sensibile ed umana, in altri Regni, nazioni e paesi. Storia vecchia. La Germania ad esempio, raramente ha lasciato fuggire il cuore della propria cultura e della propria sensibilità altrove. Oggi infatti, aldilà dei retaggi culturali provocati dal nazismo, risulta essere una nazione che “preserva” e “conserva” i beni propri e anche altrui. Solo per fare un esempio. In Italia ci si lamenta per la qualità dei sistema, di tutti i sistemi. Ma ogni buona intenzione, anche la più nobile, alla fine cade schiacciata dal peso del denaro che abbatte irrimediabilmente l’essenza culturale e il potenziale talento di Paesi/Persone.
La qualità in Italia non ha “diritto” di esistenza ma ottiene visibilità solo se connotata di Potere economico/sociale, di conseguenza viene meno la qualità in quanto non idonea ad un sistema assuefatto dal Potere.

Coscienze disperse – di Valentina Calista

16 ottobre 16-10-2012

Coscienze disperse.

Dispersione è la parola chiave di questo tempo. Ma è un tempo che oscilla da altrettanto svariato tempo. Un secolo, forse due. E poi c’è questo “oggi” che vuole apparire come un eterno presente. Ma non lo è. C’è chi dice che “l’eterno presente” sia il Paradiso, l’Aldilà, l’Oltre, quelle zone impalpabili che talvolta ci mandano segnali per darci una lucciola di speranza. Noi siamo qui. Nell’eterno presente rivolto al passato o nell’eterno presente che ci obbliga a guardare al futuro per non cedere. Noi l’eterno presente, quello vero, neanche lo conosciamo: alcuni di noi esseri umani, agnostici e fissi nella loro “credenza” marmorea (anche quella è una credenza, una fides, dopotutto), amano credere al loro tempo eternamente presente. Eppure davanti agli occhi e nel cuore si aprono scenari orribili, tutti i giorni, per tutti uguali. C’è chi vede e non sente. C’è chi sente ma non vuol vedere. C’è chi non vuole vedere e non vuole sentire. C’è pure chi vede bene e sente altrettanto bene ma resta lì a guardare per P-A-U-R-A. Chiamasi omertà. Paura di cosa non si sa: è certo però che l’omertà non è più collocabile banalmente alle questioni mafiose e camorriste. L’omertà si è insinuata nella mente e nei cuori della gente tanto da disintegrare quella naturale capacità sociale di “legare” noi stessi agli altri. E poi: ma noi, cosa intendiamo per “altri”? Le persone e basta. Purtroppo. E continuiamo a vivere secondo uno schema millenario antropocentrico che vede le specie della natura, quelle diverse da noi, come esseri inferiori alle nostre capacità intellettive. Ma noi esseri umani siamo delle bestie rare. Con la nostra razionalità estrema riusciamo a deviare i corsi dei fiumi dell’anima, riusciamo ad incasellare l’incasellabile, pretendiamo di scolpire una realtà che non è quella del reale, ma quella immaginata, sognata, ambita. Sarebbe tutto più semplice se imparassimo di nuovo ad essere poveri, semplici, umili. Soprattutto privi di quei sentimenti logoranti che fluiscono in una eterna rivalsa sull’altro, persino nei confronti di chi crediamo di amare. E pensare che spesso non lo sappiamo neppure. Ma non è affatto semplice essere poveri, umili e discreti in questo furore di anni 2000. Invece continuiamo a viaggiare su una zattera marcia in un mare di miseria, nei bassifondi della dispersione umana. Odiamo il prossimo, le madri, i padri, i figli, i nonni, i vicini, i compagni, gli amanti, i neri, i bianchi, i gay, i cinesi, i rumeni, gli albanesi. Adesso, odiamo pure i bambini. Odiamo Dio. Odiamo noi stessi. Odiamo la bellezza. Odiamo i sentimenti. Odiamo la vita. I bar sono discariche di disastri umani: gioco d’azzardo e alcool per respirare ancora miseria nella speranza che “poi passa” questo tempo che ci schiaccia. Giovani e non giovani, vecchi e ragazzi. Il vizio non ha più un’età. I soldi hanno mangiato l’anima pure agli animali. Alla terra, all’Universo. Le piazze sono parolacce e bestemmie concentriche che volteggiano sopra le nostre teste. Le scuole sono depositi di disagi senza prevenzione e ascolto. Le università sono spesso delle rampe di lancio a favore dell’ignoranza. Altro che scuola e cultura. Dovrebbero reinventare i piani di studio e ogni programma didattico basandosi su questa umana incapacità d’amore, d’amare. Dovrebbero riportare l’amore nelle scuole e per le strade. Insegnare ad un bambino che si può ridere pur essendo seri e coraggiosi, che si può piangere pur essendo forti. Che si può amare nonostante queste prostituzioni d’anima che accoltellano la bellezza. E pensare che davanti a questo disastro c’è chi ancora vuole giocare alla cecità.

Valentina Calista